Sono solo immagini
- Matilde Gilioli
- 24 feb
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 1 mar
Storia del paesaggio come metafora di identità
La nostra è l'epoca del paesaggio. Oggi il paesaggio viene discusso, viene ostentato, viene osservato e protetto. Oggi il paesaggio appartiene a tutti, è un fenomeno internazionale espressione di un mondo uniformato e globalizzato.
Forse questa sovraesposizione culturale è sintomo di una mancanza? Diversi studiosi hanno affrontato questo tema, hanno interpretato il fenomeno e portato a galla una realtà preoccupante.
Ma in questo articolo non mi soffermerò su questo, è un'altra la domanda che mi pongo: Come siamo arrivati all'epoca dell’ Onnipaesaggio?
Il tema è stato affrontato in una serie di saggi scritti dal paesaggista Michael Jacobs, in particolare nel Il paesaggio edito da Il Mulino.
Per capire come si è arrivati ad un'epoca di immagini dobbiamo gettare almeno un paio di fondamenta; prima fra tutte capire cosa sta alla base del paesaggio, ovvero la relazione dell'uomo moderno con la natura. Per tradurre questo concetto con una formula matematica potremmo dire che P=S+N.
Per S si intende il soggetto, l'essere umano in rottura con il passato, l'uomo moderno. L’uomo moderno vede e fa esperienza.
Nel caso del paesaggio la veduta muta nel corso dei secoli, come vedremo più avanti, grazie ad invenzioni e tecnologie che si intromettono nella vita dell'uomo. Per citarne due tra il ‘300 e il ‘400: la conquista del punto di vista elevato che troviamo esemplificata nella Lettera al ventoso di Petrarca e l'invenzione della prospettiva centrale che segnerà il punto di rottura nello sguardo monoculare.
Per l'uomo moderno quindi il paesaggio è il punto di incontro tra artificio e percezione vissuta.
Con N, nella nostra formula, intendiamo la natura. Per l'uomo la natura non ha sempre avuto lo stesso valore, anzi il rapporto con essa è mutevole e segue lo sviluppo del pensiero umano. Per meglio capire come e perché il concetto di natura muta attraversiamo per sommi capi la storia a partire dal V secolo a.C., piena età ellenica.
Nel V secolo a.C. l'uomo è al centro del mondo e il paesaggio non è considerato una forma estetica ma ha valore pratico. Anche nelle filosofie presocratiche che mettono al centro un elemento della natura, come quelle di Talete, di Anassimene o di Anassimandro non troviamo la distanza necessaria che permette uno sguardo sulla natura.
Nel III secolo d.C. ad Alessandria d'Egitto nasce il genere bucolico e successivamente le pitture murali nelle ville romane. Non è un caso che il genere poetico in cui i protagonisti sono semplici pastori e lo scenario è quello di una serena campagna sia nato nella città più “tecnologica” dell'antichità. È questa la prima traccia del concetto di distanza dalla natura che servirà per creare il genere.
Arriviamo al Medioevo, periodo storico in cui la natura viene filtrata attraverso due filtri: quello religioso, che vede la natura come lapsa cioè decaduta e rimanda alla stato dell’uomo sulla terra dopo la cacciata dal paradiso terrestre e un secondo filtro che potremmo definire antropologico o psicologico, quello del locus terribilis ovvero della natura nefasta. La natura infatti per l'uomo medievale significava principalmente pericolo, andare oltre il proprio villaggio voleva dire mettere a repentaglio la propria vita.
Solo alla fine del Medioevo, grazie alla deforestazione, all'esplorazione e alla letteratura che comincia a trattare di elementi naturali, la natura diventa per l'uomo un luogo sicuro. Un elemento chiave per la nostra relazione è lo spostamento verso le città, lasciando la natura infatti ci si allontana da ciò che si conosce per andare nell'altro rispetto ad essa, la città. È da qui che nascerà quello che si definisce desiderio di natura.
Ma continuiamo con il nostro viaggio e arriviamo al 1500, epoca in qui la natura è al centro di scienza e filosofia. Siamo nel tempo dell'armonia e dell'ottimismo filosofico e non a caso è proprio in questo secolo che nasce il genere paesaggistico.
Riassumendo le tappe conquistate possiamo dire che prima del 1500 l'uomo ha vissuto nella natura e non ha sperimentato quella nostalgia che gli avrebbe permesso di desiderarla. Solo allontanandosi da essa ha potuto rendersi conto di desiderare la natura conscio della distanza da essa e con l'occhio creare una visione: la natura diventa immagine. L'immagine diventa paesaggio.
Fino al 1600 il paesaggio nella storia dell'arte viene visto attraverso un soggetto. Quindi il personaggio fa parte del contesto narrativo ed entrare nel paesaggio significa farlo attraverso la storia e il punto di vista del soggetto. L'esperienza quindi è filtrata dall'elemento tempo.

Sarà il pittore Claude Lorrain a cambiare il ruolo delle figure nel genere paesaggistico, da protagoniste ed elementi che si perdono nel paesaggio.
Lo spettatore in questo modo si proietta nel paesaggio senza l'intermediazione delle figure e vive il tempo attraverso lo spazio, come definì il fenomeno il geografo cinoamericano Yi-Fu Tuan.
Il 1700 è invece l'epoca del sublime, la natura deve sorprendere e il compito dell'uomo è addomesticarla. L'esponente per eccellenza di questo genere è Caspar David Friedrich. Il sublime però è destinato a vita breve, una volta catturata e quindi soggiogata la natura non sorprende più e per rivivere l'esperienza l'uomo deve spostarsi e spostarsi fino a quando tutto il mondo viene conosciuto e non ci sarà più nulla di cui meravigliarsi.
Così nel 1800 nasce il pittoresco. Il pittoresco supera le due forme dell'estetica della natura, il bello e il sublime. In un'epoca di sgretolamento estetico il bello annoia e il sublime stanca così nasce il pittoresco, l'incontro fra i due.
Contemplare la natura per l'affermazione dell'io attraverso l'effetto immediato che lo scorcio di natura ha sullo spettatore. È la vittoria della natura sull'uomo, nelle immagini pittoresche infatti troviamo elementi dell'ingegno umano ma abbandonati e sopraffatti dalla forza della natura.
Arrivano al 1900, la post-modernità segna la fine della storia come successione di novità significative e dà inizio all'estetica del misto, dell'assemblato.
Inoltre le innovazioni di questo secolo creano nuovi punti di vista che inevitabilmente creano nuove immagini. Pensiamo solo al sistema ferroviario di fine ‘800 con la sua visione di sbieco simile a quella cinematografica e all'auto con la quale si ritorna alla frontalità.
Alla fine del XX secolo si assiste alla crisi della pianificazione, siamo nel primo dopoguerra con il fenomeno dello sprawl, ovvero l’espansione rapida e disordinata di una città e la conseguente mancanza dei non luoghi. I non luoghi sono parti di territorio ancora selvaggio, sono i luoghi ameni, i siti pittoreschi; questa mancanza fa nascere il desiderio di salvaguardia e così, nel 1945 nasce l'UNESCO e il repertorio.
Queste immagini, create dalla nostalgia, sono quelle che ci permettono di scoprire e memorizzare un determinato luogo, pensiamo ai paesaggi alpini, alle vedute, ai manifesti pubblicitari per il turismo o a tutte quelle serie di immagini che riportano ad un tema che noi stessi identifichiamo con quella specifica immagine.
Oggi i nuovi supporti e l'incessante richiesta creano continuamente nuove immagini. Viviamo di immagini, le usiamo anche per dialogare, pensiamo alle emoticons o agli stickers che invadono le nostre chat.
Tutto ciò che viviamo lo trasformiamo in immagine e con essa ci identifichiamo. La nostra identità è legata alle immagini fin da quando veniamo al mondo: gli album fotografici, i social, gli avatar….noi siamo le nostre immagini e la nostra vita è nelle immagini che esistono di noi e ciò che non è degno di diventare immagine non è reale, è desueto e non ci appartiene.
La riflessione ora è sull'autenticità delle immagini che produciamo.
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